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The aesthetic of my disappearance

Arianna Carossa

Book Presentation

The aesthetic of my disappearance

Nel suo primo libro, “The aesthetic of my disappearance”, Arianna Carossa decide di ribaltare quello che nell’immaginario comune è il “catalogo” o libro d’artista.
Nel suo libro non ci sono immagini ma nove interviste.
Nove interviste fatte da nove curatori su delle mostre che non sono mai esistite, e mai esisteranno. A loro sta scegliere la location, e immaginare la mostra, all’artista rispondere a qualsiasi domanda decidano di porre a riguardo, come se la mostra avesse effettivamente avuto luogo. Il risultato finale è l’unione di due punti di vista che danno vita a un qualcosa di inesistente, che risiede nel “Mondo delle Idee”.
Cosa viene fuori quando non si pone freno all’immaginazione creativa? Tra location come l’aeroporto JFK di New York, il Taj Mahal in India e Palazzo Ducale a Genova, le domande poste spaziano da dettagli riguardanti le opere esposte (immaginarie e che non saranno prodotte) a questioni più ampie riguardanti la pratica stessa dell’artista, il rapporto con lo spazio, il concetto di dematerializzazione dell’opera d’arte.
Ma tante domande possono ancora essere poste riguardanti la situazione odierna dell’arte contemporanea, prendendo spunto dall’idea di creare qualcosa di inesistente.
Ci troviamo in un periodo storico-artistico che l’artista stessa ha definito “decadente”, in cui la sovrapproduzione di immagini ed opere d’arte crea spesso ingorghi creativi, dovuti ad una sovrapposizione di stili e ad un linguaggio confuso, in una sovrabbondanza che può essere quasi soffocante.
In questo panorama l’artista decide di fare un passo indietro, o in avanti, separando oggetto e concetto, e riuscendo a creare qualcosa di concreto seppur esistente solo nell’immaginazione.
Viene da chiedersi a questo punto cosa realmente costituisce una mostra? Un corpo di opere installate in uno spazio, il messaggio che l’artista vuole comunicare, un certo piacere narciso-masochista nell’esporre al giudizio altrui il frutto del proprio intelletto?
Un challenge per l’artista e per il curatore stesso, e il risultato è un’unione dei due punti di vista, che si materializza nella fantasia del lettore.
Qual è il risultato finale di questo processo? Possiamo ancora affermare che tale mostra non esiste?

Ludovica Capobianco